Gregory Bateson

Figlio di uno dei maggiori genetisti del secolo, l’inglese William Bateson, che innestò sui propri percorsi di naturalismo morfologico la scoperta della genetica di Mendel.

Collaboratore e (per alcuni anni, 1936-42) marito di Margaret Mead, Gregory Bateson è stato protagonista di un “itinerarium” intellettuale senz’alcun dubbio tra i più affascinanti e suggestivi del secolo.

Una figura neorinascimentale, come avrebbe potuto definirlo l’amico ed epistemologo della cultura W.I. Thompson, capace di stare all’interno degli specialismi (antropologia, cibernetica, psichiatria, biologia, etologia, metafisica, ecologia), senza rimanerne intrappolato, sensibile alle esigenze della comunicazione tra i “linguaggi” e delle connessioni tra gli stessi e l’ordine generale di senso e di verità della natura e dell’uomo.

  1. Antropologo per quasi un ventennio (1926-1945): dapprima organicista (influenza di Radcliffe – Brown), in seguito, a partire dall’incontro con Margaret Mead (e nell’influenza della scuola di Boas), “culturalista”.
  2. Successivamente, dalla fine degli anni ’40, impegnato su due percorsi scientifici:
    • promotore (con Mc Culloch, von Foerster, Rosenblueth, Wiener, von Neumann) del programma di ricerca sulla “teoria dell’informazione”;
    • esploratore, contestualmente, dei codici di comunicazione operanti tra gli schizofrenici (è il decennio di lavoro a Palo Alto come psichiatra, segnato dalla scoperta della teoria del “doppio vincolo”): è questa la forma attraverso cui Bateson è conosciuto ed apprezzato dalla comunità intellettuale internazionale ancora sulla fine degli anni ’60 (ad esempio, in A. Watts, oppure nel campo alternativo della “dialettica della liberazione”);

Siamo qui di fronte ad un Bateson già tutto assorbito dalla preoccupazione di cogliere il “Codice Unitario” immanente ai processi di comunicazione, che pone in relazione le esperienze comunicative dei “primitivi” di Bali con quelle degli schizofrenici, la teoria dell’informazione con il linguaggio degli alcoolisti.

  1. Impegnato, negli anni ’60, ad estendere l’indagine ai territori dell’etologia (polpi e delfini), ponendo in rilievo, ancora una volta, il carattere polisenso e la ridondanza della comunicazione.

Fondamentale è il suo contributo all’epistemologizzazione della biologia.

Bateson si riallaccia a Lamarck (“il più grande biologo”) e, integrandolo con il neodarwinismo eterodosso dell’embriologia di Waddington e la morfologia di D’Arcy Thomson, perviene alla costituzione di una teoria dell’evoluzione come processo stocastico, basato non solo sulla selezione naturale, ma anche sulla cooperazione tra organismo e ambiente:

“Ora io ritengo che gli ultimi cent’anni abbiano dimostrato empiricamente che se un organismo o un aggregato di organismi stabilisce di agire avendo di mira la propria sopravvivenza e pensa che questo sia il criterio per decidere le proprie mosse adattative, allora il suo “progresso” finisce col distruggere l’ambiente. Se l’organismo finisce col distruggere il suo ambiente, in effetti avrà distrutto se stesso.”.

La ratio ecologica, nella cui costituzione la biologia post-darwiniana ha un suo ruolo così determinante, non appare tuttavia a Bateson costituita solo all’interno delle metodiche della scienza.

La prudenza metodologica della scienza e la sua purezza procedurale (“la mappa non è il territorio”), vengono sfondate in almeno due aspetti:

  1. Innanzitutto, nel senso di una vera e propria transvalutazione della ragione: la nuova forma della ragione, che è epistéme, ma al tempo stesso è dilatata a comprendere le “ragioni” che essa non conosce, è il “cuore” di Pascal. Ovvero, batesonianamente, la “grazia”. Ragione – Ek-stasis, capace di stupirsi, di aprirsi, umile, al mistero della donazione albare di senso del mondo.
  2. Ancora: il Bateson che pratica i limiti della scienza, che è cosciente del suo costruttivismo, è lo stesso che torna nell’ontologia. Non si arresta quindi, wittgensteinianamente, di fronte all'”enigma” della vita, del mondo, della “creatura”, ma si dispone alla ricerca del linguaggio adeguato a descrivere “la struttura che connette” questo mondo, linguaggio-legame tra “granchio” ed “aragosta”, tra “orchidea” e “primula”, tra “uomo”, “ameba” e “calcolatore”.

Linguaggio, insomma, come “Estetica”. Linguaggio, insomma, ancora nell’orizzonte del “Sacro”.